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Trent’anni dalla morte di Carl Schmitt. Bilanci e prospettive.

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Sono trascorsi esattamente trent’anni dalla morte del potente giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt. La sua opera, non di rado prestata alle interpretazioni più eterogenee e a soventi fraintendimenti, ha potuto godere dei frutti di una vera e propria Schmitt renaissance negli anni ’70, sino a tornare in un colpevole “dimenticatoio” negli ultimi 20 anni.

Cercando di delineare un quadro storico, si può certamente dire che il pensiero politico di Carl Schmitt giunse a maturazione attraverso un confronto con gli avvenimenti storici del suo tempo, in particolar modo nel clima creatosi durante la Weimarer Republik. Fu un periodo di grande tensione politica e di conflitto interno, alimentato da una grave crisi economica, che si concluse con l’ ascesa al potere per via elettorale di Adolf Hitler e del Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei nel 1933.

I prodromi di quel perenne conflitto interno all’apparato statale, si possono già intravedere nelle conseguenze dell’accettazione delle clausole del Trattato di Versailles, firmato dalla delegazione di pace tedesca in Francia. Con esso si acconsentì ad una riduzione drastica delle divisioni dell’esercito tedesco; pesanti pagamenti per le riparazioni e la cessione delle aree ricche del Paese (la Francia impose alla Germania nel 1923 la cessione a suo vantaggio del bacino minerario della Ruhr, ricco di carbone); la cosiddetta clausola della «Germania come unica responsabile dello scoppio della guerra». Particolarmente pesanti sul piano morale risultavano anche l’Art. 227, in forza del quale l’ex imperatore Guglielmo II veniva messo in stato d’accusa di fronte a un venturo Tribunale Internazionale «per offesa suprema alla morale internazionale»; e l’art. 231 col quale la Germania si riconosceva, insieme ai suoi alleati, «responsabili per aver causato tutti i danni subiti dai Governi Alleati e associati e dai loro cittadini a seguito della guerra, che a loro è stata imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati».

In questo sfondo storico, che non favorì di certo in Carl Schmitt una benevolenza nei confronti del parlamentarismo democratico e la sue «tare congenite», si aggiungano inoltre le coordinate culturali al quale il giurista si riferirà costantemente nella sua eterogenea produzione: dal pensiero politico della restaurazione e dunque all’Ultramontanismo di Joseph de Maistre, all’orientamento cattolico e monarchico del visconte Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald; da Donoso Cortés, primo marchese di Valdegamas, ad una visione generale della natura umana di stampo marcatamente hobbesiana. Con Hobbes, pur nell’accogliere pressoché integralmente la sua descrizione dello stato di natura, vi è disaccordo nel ‘modo di uscirne’. In primo luogo, se in Hobbes vige un criterio di legalità di matrice scettica [T. Hobbes, De Homine, XIII, 1658] e che anticipa la formalità e la proceduralità di Kelsen, in Schmitt al centro viene posto il concetto di Legittimità, costantemente posto tra i « due fuochi» del Diritto e della Politica; in secondo luogo, laddove in Hobbes il contratto viene stipulato da singoli per favorire la costituzione di un ordinamento all’interno del quale rimane predominante l’individualità, in Schmitt è centrale la nozione di Gemeinschaft dagli echi hegeliani, rousseauiani, in un’eterogeneità di orientamenti che sono la conseguenza naturale di una complessità profonda del suo pensiero politico, filosofico e giuridico.

Nell’orizzonte globalizzato nel quale viviamo, può sembrare paradossale ritenere ancora attuale il pensiero politico-giuridico di un autore che si è occupato di comprendere il proprio presente e di delineare prospettive futuribili, scrivendo a cavallo tra le due guerre mondiali, pienamente inserito nel «fuoco» del secolo breve. Tuttavia è ancora un esercizio utile utilizzare gli strumenti schmittiani per interpretare alcuni fenomeni propri della contemporaneità politica. Nella immagine tratteggiata dall’On. Carlo Galli, la Globalizzazione è paradosso spaziale e mobilitazione; caotico insieme di processi che sfonda e apre ogni spazio delimitato. Ma l’età globale non è caratterizzata solo da una spazialità paradossale, multipla e polidimensionale, sì anche da un nuovo rapporto con la dimensione del tempo: in essa gli eventi si concatenano non consecutivamente ma simultaneamente, e quindi la successione cronologica non è di per sé successione causale; il presente non è determinato dalla storia e anzi non ha propriamente struttura storica, né orientamento progressista o progettuale. […](1)

Questa mobilitazione così intesa converge in una forma pandemica aprogettuale, dalla quale risulta difficile elaborare dei rilievi concreti. Tuttavia, contrariamente a quanto sostiene l’On. Galli in merito all’inservibilità della produzione schmittiana dinanzi la complessità del mondo interconnesso contemporaneo, è proprio il pensiero di Carl Schmitt che permette di comprendere che l’illimitatezza di determinati fenomeni contemporanei, è dovuta principalmente alla mutazione dello spazio e dei contenuti del Politico, caratteristici della Modernità. Carl Schmitt non poteva prevedere la complessità del villaggio globale, tuttavia aveva inteso con strabiliante anticipo sui tempi, la mutazione della concezione dello Stato – per secoli in grado di garantire la stabilità sociale portando la communitas al di là del «pantano» delle guerre di religione – e il ruolo della Politica; i problemi relativi all’esercizio della Sovranità e la sua natura essenzialmente pregiuridica; la mutazione dell’esercizio della Guerra e la necessità di limitarla (non di eluderla!) come unico compromesso possibile per evitare una nuova catastrofe sul nostro pianeta; i fenomeni del terrorismo e la riduzione dell’avversario politico a criminale internazionale come cifra di un futuro del quale Schmitt vedeva i prodromi nella dissoluzione dello jus publicum Europaeum.

È dunque solo a partire da Carl Schmitt, ancora oggi a trent’anni dalla sua morte, che è possibile pensare ad un nuovo modo di intendere la convivenza di popoli e tradizioni diverse su questo pianeta; è solo muovendoci nelle maglie della sua complessa ed eterogenea produzione, che risulta possibile gettare uno sguardo sui nuovi attori della scena globale e comprendere il senso profondo di determinate contrapposizioni geopolitiche, sperando che da esse possano sorgere nuovi Grandi Spazi e, con essi, una feconda pluralità di Visioni del Mondo; nuove forze spaziali contrapposte in grado di porre un freno agli «interventismi umanitari» che celano, dietro un universalismo dei valori che tutto omogeneizza, barbare spinte imperialistiche e volontà egemoniche.

(1) Carlo Galli, Lo Sguardo di Giano, Saggi su Carlo Schmitt, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 157.

Guido Bachetti


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